Artista per eccellenza schivo e riservato, modesto per indole, vagamente autolesionista, ossessionato da una sua personale ricerca che non gli dava mai tregua.
Nasce all’arte anzitutto come disegnatore, i suoi diari e disegni giovanili, come testimoniano interi taccuini di rappresentazione grafica di episodi della Guerra Mondiale e della Resistenza, e straordinari fumetti a china. E tale resterà lungo il suo lungo e tormentato percorso artistico, nonostante l’acquisizione progressiva di nuove tecniche e di nuove abilità pittoriche, che l’interesse per il colore nelle sue fasi successive, appaia forse prevalente rispetto a quello per il segno. In realtà invece, là dove il colore sembra esplodere in una festa gioiosa o magari anche drammatica o tragica, non è difficile individuare la presenza o la pregnanza di un tratto, di un disegno assolutamente sicuro, da cui il colore medesimo assume poi forma, volume e vigore.
Oltre che il piglio di un disegnatore sicuro di sé, esperto e senza ripensamenti, altrettanto risultano evidente, nella pittura di Gibogini, i suoi debiti e le sue maggiori ascendenze artistiche: Van Gogh, i fauves, i visionari del periodo decadente e dell’art nouveau, i maestri dell’espressionismo figurativo, fors’anche, in qualche misura, i surrealisti: persino anche, a mio modo di vedere, alcuni grandi illustratori e maestri del fumetto artistico, forma espressiva così tipica del nostro tempo, spesso ingiustamente considerata impura e minore. Ma è importante far notare che è che, malgrado il peso di tali ascendenze, Gibogini è lo stesso riuscito sempre a trovare una sua strada, una sua maniera personale di tradurre in termini pittorici i propri assilli. La capacità di osservare la natura nei suoi aspetti più minuti, nelle sue cangianze minimali, retaggio dell’infanzia trascorsa in campagna, è un’altra delle caratteristiche che immediatamente compaiono all’occhio di chi consideri una qualsiasi opera del pittore. Del resto, egli stesso, nei suoi scritti sparsi, ha più volte dichiarato che la Natura è stata la sua prima maestra e fonte di ispirazione. Dai primi paesaggi, dipinti a olio con rapidi colpi di spatola oppure con macchie e tratti verticali di pennello, con un effetto ottico quasi divisionista, alle radici contorte e antropomorfe dell’ultimo periodo, la contemplazione della natura appare sempre come un elemento primario, come l’atteggiamento di partenza necessario per ogni ulteriore analisi o ricerca.
Raramente, tuttavia, Gibogini si limita alla pura contemplazione. raramente la natura rappresentata si rileva essere la semplice interpretazione personale del realmente visto. Più spesso, a essa vengono attribuiti quasi dei sentimenti, dei tormenti, che vengono resi attraverso la tensione drammatica ed espressionista del segno e del colore combinati. Pare quasi che, anche quando si limita a rappresentare, l’artista voglia invece raccontare delle storie, ovvero una storia; che i suoi quadri stessi, ordinati anche secondo una sequenza casuale qualsiasi, non costituiscano altro che gli sparsi episodi di un unico racconto lungo e diverso, intricato e tragico, sovente visionario, la cui trama complessiva lui solo aveva in mente.
Anche le figure umane, inserite nei quadri sempre più frequentemente con il passare del tempo, vengono via via ad assumere un ruolo importante e sempre maggiore nel contesto naturale interpretato come storia di una visione e non come rappresentazione pura e semplice del reale. Se mai di realismo vero si tratta, essoè pur sempre filtrato da un’ottica espressionistica, potentemente visionaria e fondamentalmente tragica, ossessiva, di denuncia radicale, a tratti persino misticheggiante o quasi morbosa, secondo una modalità espressiva che non mi pare azzardato definire quasi pasoliniano.
Nel corso del tempo, con il variare dei suoi percorsi fantastici e delle tecniche, la ricerca di Gibogini infine approda, dalla rappresentazione drammatica e visionaria della natura, dall’interpretazione antropomorfica di ciò che è inanimato e dalla metamorfosi, o piuttosto dalla simbiosi, dell’umano in elemento naturale, a un misticismo e una religiosità pur sempre fortemente visionari e mai pacificati. Che questa la storia che intendeva raccontare, la sua personale storia, il progetto artistico complessivo che forse inconsciamente andava perseguendo, che quanto meno stava prendendo forma ai suoi occhi? Che fosse davvero il suo racconto di formazione, la storia della transizione, tra speranza e frustrazione, da Homo Aesteticus a Homo Religiosus? Potrebbe anche essere, chissà. In realtà la storia di Diego Gibogini è ancora tutta da ricostruire. Di essa noi abbiamo per il momento a disposizione soltanto i numerosissimi tasselli: centinaia di disegni e quadri, scritti organizzati o sparsi che testimoniano di un’attività sempre febbrile e anche sempre acuta, vissuta nell’isolamento come una necessità di vita.
Oggi si può dire per certo è che la pittura di Gibogini costituisce nel suo complesso anche un racconto autobiografico complesso, o una sorta di lungo e nobile fumetto narrato attraverso episodi sparpagliati, a tratti visionario e disperato, sempre esemplare per la sua coerenza di fondo. Tale racconto in pittura, inoltre, potrebbe essere preso a dimostrazione di come anche nell’isolamento provinciale, troppo sovente disprezzato dai superficiali e dagli imbelli, possano maturare ed esprimersi delle vicende e delle ricerche artistiche drammaticamente autentiche e vitali.
Giulio Martinoli – marzo 2001
(critica tratta dal catalogo realizzato nel 2001 in occasione della mostra Diego Gibogini: I colori di una vita tenutasi al Forum di Omegna)